L’ultima, in ordine di tempo, a cui è successo è Åsa. Malata di tumore al seno dal 2012, dopo una prima operazione, ne ha subita una seconda lo scorso ottobre per rimuovere l’altro seno e le ovaie. Nel frattempo, è andata incontro a diversi cicli di chemioterapia. Qualche mese fa, però, ha ricevuto una lettera dal Försäkringskassan: “I tuoi giorni di malattia sono finitI”. E nonostante I medici abbiano messo nero su bianco che la donna è troppo malata per lavorare, è stata costretta a tornare al proprio impiego per non perdere l’unica fonte di reddito per la sua famiglia. “Ho chiesto – racconta Åsa – quanto malati si deve essere per ottenere il contributo: non è sufficiente il cancro? Devo essere sul letto di morte e dare una data? E l’ufficiale col quale ho parlato mi ha detto: ‘Queste parole non stanno uscendo dalla mia bocca, ma sì, è così'”.
L’anno scorso aveva fatto discutere il caso del 23enne malato terminale, che chiedeva allo stesso ente un’indennità negli ultimi mesi di vita, che voleva trascorrere a casa assieme ai suoi. Il Försäkringskassan aveva preso il fatto che lui lasciasse l’ospedale come un segno di miglioramento e sospeso l’erogazione della pensione. Si era detto pronto a riprenderla, a patto che il medico del malato mandasse un certificato indicante la data presunta di morte. Il caso aveva risvegliato l’attenzione dei media, su Facebook in poche ore in migliaia avevano letto la storia indignandosi. E solo allora il Försäkringskassan aveva cambiato idea.
“Corregendo il tiro una volta che un caso arriva sotto i riflettori, il Försäkringskassan si passa solo un po’ di cipria sulle rughe e non coglie il problema fondamentale: è la dignità umana che deve essere il fondamento di tutto ciò che fa. Oggi non è così”, è il commento dell’associazione Ung Cancer, che lavora a sostegno dei diritti dei giovani adulti malati di tumore.
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